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12/05/2023Evento, “Models Runway Club”
12/05/2023Una sera a Venezia. Una sera umida e quasi ambigua, come negli improvvisi cambi di stagione, che ti sorprendono subdoli, senza un minimo di riguardo o gentilezza. Era il 1972.
In quegli anni si svolgeva, alla Fenice, prima che venisse incendiata, il Festival Internazionale della Prosa, vetrina e confronto fra le più importanti istituzioni del Teatro di regìa del mondo.
Poi divenuto Biennale Teatro. Ricordo, in quell’anno, in quella stessa sede, uno degli più spettacoli più belli della mia vita: il “ Sogno di una notte di mezza estate “, una meraviglia assoluta e felice, un indimenticabile, atletico, infantile gioco pop, un miracolo di leggerezza e poesia. La regia sublime era di Peter Brook. Noi avevamo appena formato, a Bologna, un gruppo teatrale di giovani che, pur essendo “ correttamente “ impegnati, cercavano di percorrere una via nuova.
Una ricerca, una sperimentazione linguistica e culturale meno appiattita sui contenuti politici, semplificanti e omologati, quasi obbligatori nel teatro di quegli anni. Cercavamo di comprendere e affrontare sulla scena il linguaggio teatrale, o anche letterario, in tutte le sue possibilità sceniche.
Per questo, quella sera di fine settembre, eravamo a Venezia. Io, mia moglie Silvia, appena sposata, il regista del gruppo e la sua compagna. Era l’inaugurazione del Festival, quasi un dovere essere presenti. Per noi poi che partivamo da Bologna, era il classico tocco di snobismo provinciale. Presenzialismo e visibilità a tutti i costi, agli eventi più importanti. Specie se di mondanità teatrale. Il Festival iniziava quella sera, con una rappresentazione di una delle forme teatrali più antiche e meno accessibili, misteriose, lontane. Un No giapponese.
Io, pavoneggiandomi nel mio completo finto hippie – finto rivoluzionario, tutto pelle e jeans, mi apprestavo a seguire con un certo narcisismo lo spettacolo. Una di quelle esperienze che avverti subito come esclusive, e che ti fanno sentire radical-schic.
Allora poteva quasi essere un vanto. Non come oggi, che ti vengono ad arrestare di notte, se solo sospettano che tu lo sia. Ecco, fu una rottura di palle indimenticabile, unica. Mostruosa, per dirla con Fantozzi. Figure bianche, immobili, fantasmatiche.
Volti biaccati, gessosi, che, emergendo dal kimono, emettevano suoni gutturali, viscerali, ancestrali. Assolutamente incomprensibili, com’è ovvio. Alla fine, dopo gli applausi di rito ( è il caso di dirlo ) io schizzai fuori per primo, e in quel momento benedissi l’umidità veneziana, che finalmente mi rinfrescava e mi risvegliava. Così, aspettando che i miei compagni mi raggiungessero, mi misi ad osservare il pubblico che usciva dalla Fenice.
Solite facce. Intellettuali di ogni parte d’Italia, teatranti modaioli, habituès di ogni tipo, ansiosi solo di un prosecco. E poi una sequenza di fiacchi abbonati, per i quali era indifferente assistere all’operetta o al Living Theatre. Qualche bellissima escort, ma allora non si chiamavano così.
E infine li vidi. Una coppia anziana, mischiata alla folla. Lei, alta, robusta, forte, ma con un’aria dolce, rassicurante, da “tata “ nordica. Lui, con un classico burberry avorio un po’ sbiadito, dimesso, ma elegantissimo. Il volto ossuto, fiero e nobile, aveva antiche rughe da profeta.
E una massa composta, curata, di capelli candidi. Come la bella barba. Si appoggiava con il braccio a lei e insieme camminava lento, sostenendosi con il bastone. La folla anonima li circondava, ignorandoli. Ma tutti sembravano lasciare uno spazio a quella coppia, una corsia preferenziale, come rispettosi del cammino di quelle due affaticate figure. Che intanto si stavano dirigendo verso il punto dove ero io, verso di me. E infine si avvicinarono.
E fu allora che li vidi. Gli occhi di lui. Del vecchio. Due occhi azzurrissimi, luminosi, guizzanti. In quel volto spiccavano improvvisi, come zaffiri nella neve. Erano due occhi inaspettatamente giovani, pieni di vita, che contrastavano con il suo incedere stanco. Il vecchio mi guardò, a sua volta, soffermandosi su di me.
Ci fissammo per alcuni brevi, lunghissimi, istanti. Il tempo necessario perché io mi rendessi conto di una cosa folgorante. Quegli occhi sorridevano. Sorridevano, sì. Nella loro giovanile, fresca vitalità quei due occhi di un azzurro incredibile, ipnotico, sorridevano.
O forse addirittura ridevano. Di cosa? Di me, fighetto provinciale approdato fin lì, per una circostanza più grande di lui? Può darsi. O forse sorridevano paternamente? A me parve di sì, lo confesso, o per lo meno volli crederlo. Il vecchio mi diede un’ultima, quasi complice, amichevole, occhiata, come a dire “ Tu, ragazzo, di quello che hai visto stasera non hai capito nulla. Ma io ho capito tutto. E l’ho amato..” E poi inevitabilmente mi girò le spalle e proseguì. Io ero rimasto pietrificato. Quel vecchio era Ezra Pound.
Arrivarono finalmente i miei, mia moglie Silvia, il regista, la sua compagna. “ C’è Pound..C’è Pound..Capite? ..Pound..” balbettai. “ Dove?! Dove?!..” Mi chiesero subito, frenetici.Ma ormai il burberry e la tata erano troppo lontani, come se avessero acquistato di colpo una misteriosa velocità, o forse non mi ero accorto del tempo che era passato. Non c’erano più.
E allora, solo allora, riuscii a riflettere. Riflettevo, pensavo, cercavo di rendermi conto, di realizzare quanto mi era successo. Per tutto il viaggio di ritorno, guidai senza dire una parola. Come, solo molto tempo dopo, appresi che lo stesso poeta faceva ormai da anni. Non dissi una parola, anche perché i miei compagni dormivano tutti e tre della grossa. Ezra Pound. Un suono armonioso, elegante, sembravano note musicali. Mi ricordai che anni prima avevo comprato un’edizione dei Cantos, attratto e insieme turbato dalla fama sinistra, sulfurea, maledetta che accompagnava quel nome. Il cantore del nazismo, l’aedo del fascismo, che lui esaltava alla radio italiana.
Mentre gli americani, i suoi connazionali, sbarcavano sulle nostre coste, lottando e morendo sulla spiaggia di Anzio, per liberarci da quelle stesse dittature. Ezra Pound. Ma anche il poeta più importante del ‘900, il più innovativo. Quello che, mi vennero in mente allora le parole di Borges, “ aveva ripreso la lirica dai suoi fondamenti, facendola rinascere nel suo incanto, nella sua tremenda magia“. Peraltro molti intellettuali di sinistra, che in quegli anni io ascoltavo , lo amavano alla follia, incondizionatamente.
Il giorno dopo riaprii i Cantos. Aprii a caso, e lessi questi versi “ Ho tentato di scrivere il Paradiso / non muoverti / lascia che parli i vento / che è Paradiso “. Di nuovo rimasi immobile, ad assumere, elaborare quelle parole. Quello che, anni prima, mi era sembrato incomprensibile, ermetico, ignoto, ora mi appariva quasi miracoloso, dotato di una grazia sconosciuta.
E allora cominciai a cercare di più, ad indagare più a fondo quella figura di vate dannato e consapevole, così umano e così mistico. Così poetico. Scoprii che su di lui era stato detto e scritto tutto e il contrario di tutto. Pochi autori come lui avevano catalizzato l’attenzione sulla forma e il senso dell’espressione, portandoli agli estremi. La dicotomia enorme fra opere e pensiero, tra scritti e dichiarazioni politiche ne aveva fatto un autore controverso, forse il più controverso.
Con un giudizio morale ancora sospeso sulla sua figura, e di riflesso anche sul suo lavoro. Pound era comunque riconosciuto da tutti un punto, se non il punto, di riferimento fondamentale nella storia letteraria del secolo scorso. Anche se non tutti la pensavano così. Per alcuni la sua poesia non era altro che un caos verbale. Il “ magma espressivo “ che lui cercava, veniva definito oscuro e poi oscurantista.
O anche decadente, arcaico-avanguardistico. Per altri il linguaggio di Pound, ricco di timbri così diversi, era in realtà una strada senza sviluppo. Ma Enzo Sicilano, un intellettuale non certo di destra, scriveva “ Pound inventò la poesia moderna di lingua inglese. Dall’America arrivò in Europa come un ciclone. Nella poesia del nostro secolo c’è un prima di Pound e un dopo Pound. Come nella prosa, c’è un prima di Joyce e un dopo Joyce “.
E poi scoprii le parole di Claudio Gorlier, celebre anglista, anche lui grande uomo di sinistra, con cui avevo avuto la fortuna di lavorare alla Rai di Torino: “ Se Ezra Pound, forse il più grande, certo il più innovativo poeta di lingua inglese del ‘900, fosse morto a metà degli Anni Venti, sarebbe stato tra gli intellettuali di sinistra “. Invece, pensai io, visse nel periodo tragico fra le due guerre, e anche oltre, ed espresse, cantò tutta la sua visionaria, delirante, ma anche illuminata, interpretazione della realtà. E così mi misi un po’ a studiare ( era ora.. ) la figura di questo poeta antisemita, ispirato e divino, che attraversava il linguaggio, la parola e il pensiero umano in modo così profetico.
Partendo proprio dai Cantos, l’unica opera di lui che avevo sottomano. E realizzai, leggendo i critici, che in quel poema, ispirato al capolavoro dantesco e anche all’Odissea ( come aveva fatto il suo amico Joyce ) la poesia, lampeggiante e lirica, tornava ad essere narrazione, calderone, magia, cronaca di secoli e paesi lontani e diversi. I Cantos grondavano cultura.
La sapienza dell’Antica Cina e Giappone ( ecco perché amava il No..), i canti dei trovatori, viaggi, e, su tutto, una perenne, inesorabile condanna dell’usura, come atto di disumanità dell’uomo. L’usura. Perché? Già la parola suonava dantesca, crudelmente poetica.
Volli andare a fondo. E così imparai che all’origine di quel concetto c’era un’idea nostalgica dell’America, l’America dei fondatori, i padri dell’Indipendenza. Quegli stessi che si dichiaravano contro la società del profitto, contro la degenerazione capitalistica degli ideali della rivoluzione americana. E questo lo avvicinava maledettamente a Pasolini. Pasolini che, negli anni ’60, gli fece un’indimenticabile intervista televisiva, che mi aveva colpito moltissimo.
C’erano delle fondamenta ideologiche ad unirli, lo capii inoltrandomi nella ricerca. Pasolini legato al mito dell’Italia rurale e contadina, Pounda quello dell’America dei pionieri. Da qui nasceva in entrambi una feroce avversione alla guerra, all’usura, all’egoismo feroce del capitalismo. Da qui nasceva il loro amore per le espressioni nazionali, popolari, tradizionali, la convinzione del valore della cultura e del grande potere dell’educazione.
Diceva Pound ( e Pasolini approvava ) che quando l’economia si separa dalla realtà, la finanza dal popolo, il denaro diventa fine a sé stesso e il sistema bancario, da strumento, si fa signore del mercato. Ed è allora che una società precipita nel baratro. Vogliamo dirlo? Sembrano parole scritte oggi.
C’era in lui l’intuizione, appresi continuando, di un meccanismo infernale, e c’era per contro la necessità di collegare l’economia alla società e il denaro alla società. Cose su cui non avevo mai riflettuto. E non mi sembrava soltanto un concetto moralistico. L’invocazione di Pound era quella di rovesciare il rapporto tra il mondo fittizio dell’economia e il legame solido, primario con la terra e con la natura ( Pasolini, ancora ). Era una visione troppo elegiaca, arcaica per me, figlio del dopoguerra ed eccitato dal boom economico e culturale degli anni’60. Brigitte Bardot, Elvis Presley, il bikini, il twist, Riccione,i jeans, il calcio, e poi i Beatles, etc.. Però quell’accorata invocazione aveva il merito di restituire alla realtà e alla storia il dominio sul denaro e sull’economia. Secondo Pound, lessi, costumi e idee mantengono viva una nazione, molto più della borsa e del prodotto interno lordo. Chi glielo dice oggi ai network, alle reti commerciali, alle varie piattaforme mediatiche?
E ancora appresi che, secondo Pound, il cuore della civiltà americana aveva un legame, una consonanza con la civiltà latina e mediterranea, con Dante e Cavalcanti, ma anche con Confucio. Più che con il mondo britannico. Sinceramente non ero in grado di capire da dove gli venisse quella convinzione, lo confesso, ma mi sembrava affascinante. Seppi che Pound era nostalgico dell’Europa.
Il suo era il rimpianto per una civiltà musicale, che aveva ceduto il posto a una società fondata sulla sola matematica, ma non nel senso pitagorico, piuttosto nel senso impuro della contabilità. Degli affari, dei profitti, a danno di una vera economia sociale. Era il mondo dell’usura, che lui odiava, mentre cercava con tutto sé stesso di trovare il sacro, a partire dalla realtà.
Una visione che però lo portò, da uomo mite quale era, ad abbracciare e ad esaltare senza riserve, Mussolini, Hitler, il fascismo, il nazismo. E questo, mi dispiace, non era ammissibile. Almeno per me. Ma, per la verità, non fu ammissibile nemmeno quello che fecero gli americani, dopo la guerra. Quando lo rinchiusero, per mesi, in una gabbia illuminata a giorno, come una belva. E poi, per tredici anni, in un manicomio criminale. Mi chiedo, ancora oggi, come facessero quegli occhi azzurrissimi, da giovane, allegro ragazzo, a sorridere.
Dopo quegli terribili anni scelse, per l’ultimo tratto di vita, la sua amata Italia. Dove era già stato, a Rapallo, prima della seconda guerra. Scelse Venezia, una casa in Fondamenta Cabala, nome che, fra le altre ipotesi, si pensa derivasse dal culto esoterica della “ Kabbalah “, nelle profondità della mistica ebraica. Uno dei grandi paradossi della vita, per un antisemita come lui. Negli ultimi anni Pound si chiuse, lo seppi poi, in un enigmatico, ermetico, assoluto silenzio.
Non parlava più, del tutto. Le domande e le spiegazioni che si fecero i critici furono tante, ma forse la risposta più semplice fu quella che diede Olga Rouge, la sua compagna ( la tata “ nordica “ che avevo visto..) “ Perché non ha nulla da dire. O non c’è nulla che valga la pena di essere detto “. Questo però non impedì a Pound di dedicare a Venezia questi versi.“ Oh Dio, quale gesto di bontà abbiamo fatto in passato/ e dimenticato/ che tu ci doni questa meraviglia./ Oh Dio delle acque/ Oh Dio della notte/ Quale grande dolore viene verso di noi/ che tu ce ne compensi così, prima del tempo ?
Ecco, un uomo simile, un’anima simile, in un’umida sera autunnale a Venezia, lui, il mio misterioso anonimo veneziano, mi aveva sorriso con lo sguardo. Forse mi aveva salutato.
Morì pochi mesi dopo.
Di Fabio Mazzari per Cinema Sociale99
Attore (star di vivere), autore regista teatrale socio fondatore di Cinema Sociale99 (cinemasociale99@gmail.com )